Originally published in Barry X Ball. The End of History exh. catalogue, Varese / Milan, Villa e Collezione Panza / Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica, April 12, 2018 – February 20, 2019; Published by Magonza editore

Il 4 novembre 1966 un’eccezionale ondata di maltempo provocò lo straripamento dell’Arno: una grave alluvione colpì Firenze e gran parte della Toscana, provocando trentacinque vittime e causando gravissimi danni al patrimonio culturale ed artistico. Finirono sott’acqua e nel fango un gran numero di manoscritti e volumi antichi della Biblioteca Nazionale Centrale, come pure monumenti storici, sculture e dipinti. Tra di essi subì gravi ed in parte irreparabili danni il Crocifisso di Cimabue della basilica di Santa Croce.
Superata l’emergenza, ci si trovò a dover affrontare una campagna di restauri senza precedenti, sia per il numero delle opere danneggiate che per la gravità e la qualità dei danni. Il soprintendente di Firenze, Ugo Procacci, e il laboratorio fiorentino di restauro, l’Opificio delle Pietre Dure, si dedicarono a questo delicato lavoro per decenni, applicando tutti i metodi tecnicoscientifici disponibili e sviluppandone di nuovi, studiando le fonti antiche – quali trattati e ricettari per pittori – sulle modalità di produzione dei manufatti, raggiungendo gradualmente una sempre maggiore competenza e capacità di intervento.
Questa forzata rivoluzione non cambiò soltanto la storia del restauro e le tecniche impiegate, ma comportò una trasformazione della concezione stessa dell’opera d’arte, che si sviluppò gradualmente nei decenni successivi: i dipinti cominciarono a non essere più concepiti solo come “immagini” o espressione di “stile”, ma anche come oggetti tridimensionali caratterizzati da determinati connotati fisici e come tali costruiti, collocati e utilizzati. Se la tradizione ottocentesca dei connaisseurs si era impegnata ad indagare le diverse personalità artistiche in modo da poter distinguere la mano del maestro da quella della bottega o di qualche imitatore/ copista/falsario mediante lo studio della pennellata, della composizione ed anche dei minimi dettagli, alla fine del XX secolo l’attribuzione di una tela antica viene sempre più spesso certificata attraverso analisi chimico-fisiche dei pigmenti, reflettografie che evidenziano il disegno sottostante o la sua assenza, radiografie che rivelano pentimenti o altri dipinti precedenti. I maestri che dipingevano su legno sono distinti in base al loro lavoro di carpenteria e i pittori di fondi oro attraverso le diverse tipologie di punzoni utilizzati. Così pure le caratteristiche della tela (materiali, tipo di tessitura, numero di fili della trama) e della preparazione costituiscono elementi specifici.
Anche la scomparsa di Roberto Longhi nel 1970, proprio a Firenze, contribuì a segnare la fine di un’epoca. Dopo di allora vennero pubblicati con sempre maggiore frequenza e conosciuti dalle giovani generazioni di studiosi italiani i libri dei più illustri esperti stranieri, spesso coetanei di Longhi ma che avevano indagato in tutt’altro modo la storia dell’arte. I dipinti si trasformarono così da esempi di stile in cui prevaleva la “forma” in beni culturali di cui indagare il contenuto – iconografico o storico – e in cui riconoscere un aspetto antropologico.

Nel 1981 Hans Belting pubblica Das Bild und sein Publikum im Mittelalter: Form und Funktion früher Bildtafeln der Passion , in cui viene letta in modo nuovo la produzione artistica medievale delle imago pietatis e dimostrata la tesi che i dipinti “mobili” quali noi li conosciamo – cioè su tavola o tela invece che su muro – costituiscono un nuovo genere di espressione artistica e si moltiplicano nell’Occidente cristiano per precise ragioni devozionali, legate al culto delle reliquie portate dai Crociati e alla spiritualità diffusa nei ceti borghesi dagli ordini mendicanti. Questo è il contesto culturale, tutt’altro che ovvio per un artista californiano, a cui corrisponde fin dall’inizio la produzione di Barry X Ball. Nato nel 1955 alla periferia est di Los Angeles, a Pasadena, da una famiglia di protestanti fondamentalisti, primo di quattro figli, cresciuto dal nonno pastore evangelico e meccanico d’automobili che gli insegna i rudimenti dei motori e gli trasmette la fede nella tecnologia come via verso il progresso, nella primavera del 1977 Ball si laurea al Pomona College di Claremont (California), dove avevano studiato John Cage e James Turrell. Si era iscritto in un primo momento a matematica ed economia, ma partecipò subito anche a un corso di disegno, malgrado arte e musei fossero banditi nella sua famiglia per motivi religiosi. Incontrò così un giovane e carismatico insegnante, Timothy App, e un altrettanto bravo professore di storia dell’arte, Gerald Ackerman, che lo incoraggiarono ad intraprendere la carriera d’artista. Si entusiasmò per Marcel Duchamp e produsse i primi disegni concettuali ispirati ai Brushstrokes di Roy Lichtenstein e ai Black Paintings di Frank Stella, che costituirono la sua prima esperienza di “appropriazione”.
Il ritorno a casa dopo la laurea si rivela subito molto difficile e Ball prima si trasferisce per sei mesi a Los Angeles, dove ha il suo primo studio, poi decide di andare a vivere a New York. Con una vecchia Volkswagen Kombi attraversa gli Stati Uniti in una sorta di pellegrinaggio per i musei delle principali città americane, fino a raggiungere la sua meta nell’aprile del 1978.
Grazie a un compagno di università conosce subito Joseph Marioni, noto pittore di monocromi, che prima lo ospita per qualche tempo nel suo studio, poi gli trova un ampio locale all’angolo tra la 11th Avenue e la 44th St., dove l’artista vive e lavora per circa dieci anni.
Durante questo periodo egli costruisce la sua identità artistica. Attraverso Marioni conosce il gruppo dei pittori che, portando alle estreme conseguenze l’astrattismo e sotto l’influenza del Minimalismo, avevano trovato nei quadri monocromi la risposta più radicale alla domanda “cosa dipingere oggi?”. Malgrado il legame di amicizia che li unisce, egli li giudica l’equivalente in arte della rigida religiosità della sua famiglia, avendo fatto del loro modo di dipingere una sorta di culto indiscutibile. In breve tempo li considera infatti «pittori radicali come i cristiani fondamentalisti».

Dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano visto fiorire ed affermarsi diversi movimenti artistici, che si erano susseguiti e anche sovrapposti l’uno all’altro – dall’Espressionismo astratto alla Pop Art, dal Minimalismo all’Arte concettuale –, creando un clima culturale ed un mercato particolarmente vivaci soprattutto a New York. All’inizio degli anni Ottanta il rigore e le teorie dell’Arte minimalista e concettuale potevano avere ancora importanti ripercussioni sulle nuove generazioni, ma non costituivano più un canone da sviluppare necessariamente. Da allora i giovani artisti non si sentono più uniti da un unico comun denominatore e ciascuno si mette a cercare, per conto suo, la propria strada. Il tempo dei “movimenti artistici” era sostanzialmente finito di fronte alla molteplicità delle possibili risposte individuali al come e perché fare arte, a quali mezzi espressivi usare e quali finalità corrispondere nella società attuale.
Barry X Ball visita sistematicamente le maggiori gallerie di arte contemporanea, legge le riviste «Art in America», «Artforum» e «October», in cui nel n. 25 del 1983 trova particolarmente interessante la prima pubblicazione del testo di Leo Steinberg, The Sexuality of Christ in Renaissance Art and in Modern Oblivion. La rigida educazione evangelica ricevuta lo spinge ad interessarsi all’arte religiosa, in particolare medievale e rinascimentale, che gli era stata preclusa in quanto legata al cattolicesimo. A New York visita musei e chiese, che lo affascinano con il loro ricco stile neogotico. Dall’università aveva ricevuto una buona educazione storico-critica, ma sente l’esigenza di acquisire un’altrettanta adeguata formazione artigianale. Perciò studia il celebre manuale di tecnica pittorica di Ralph Mayer, The Artist’s Handbook of Materials and Techniques, e si perfeziona da autodidatta nella lavorazione del legno, abbonandosi alla rivista «Fine Woodworking» e leggendo attentamente i libri di Tage Frid. Si dedica assiduamente al disegno, sperimentando diverse tipologie di supporti. Studia le carte dorate, le tavole a fondo oro di Giotto e di Simone Martini esposte al Metropolitan Museum of Art, il trattato di Cennino Cennini, le antiche tecniche di lavorazione del gesso e del bolo, la preparazione delle tavole in legno per la pittura.

Ball crea le sue prime opere nel 1982, utilizzando materiali inusuali nella pratica artistica contemporanea alla ricerca di mezzi tecnici che possano superare l’idea tradizionale dell’oggetto artistico e soprattutto l’opposizione tra pittura e scultura. In questo suo lavoro finisce per concentrarsi sulla tecnica con cui furono creati i polittici del XIII e XIV secolo nell’Italia centrale. Tra queste opere figurano Panel 1 e Panel 3, fondi oro quadrati di piccolo formato realizzati con estrema precisione secondo la pratica antica, privi di figure e ciascuno in un diverso tipo di oro, quello dei polittici italiani e quello delle icone russe. In essi l’artista è interessato soprattutto alle qualità riflettenti del metallo prezioso, sia della luce che del volto dell’osservatore, che diventa quindi l’unico elemento figurativo visibile nell’opera (fig. 2). Egli cura con la massima precisione ogni minimo dettaglio per approfondirne sia la tecnica che il significato. Considera della stessa importanza ogni parte dell’opera – sul fronte o sul retro, visibile o nascosta – e la realizza con la stessa perfezione. La dimensione ridotta di questi lavori induce necessariamente lo spettatore a concentrare la sua attenzione, ne enfatizza ogni particolare, accentua l’importanza degli spazi lasciati studiatamente vuoti tra le opere, ne impedisce una visione solo frontale. Anche se alcuni di essi sono appesi al muro e potrebbero essere considerati, sul principio, dei dipinti monocromi, non si tratta di quadri ma di oggetti complessi e tridimensionali, come proposto dalle esperienze di restauro seguite all’alluvione di Firenze.

Nel 1982-83 Ball crea Largen 1 (Before / After Giotto) (fig. 3), ispirato alla Adorazione dei Magi di Giotto al Metropolitan Museum di New York (fig. 4) e che potrebbe essere considerato il primo esempio della serie che egli poi chiamerà Masterpieces, opere profondamente rielaborate da capolavori del passato. Il pannello giottesco viene privato di ogni elemento figurativo e ridotto a quattrocento lamine quadrate di oro posate in file regolari su un supporto costituito da strati successivi di legno, cera, lino, gesso e bolo. Le dimensioni originali vengono trasformate in un quadrato perfetto di 44 x 44 cm, con diversi significati relativi a questo numero. Proprio al Metropolitan Museum è esposto dal 6 settembre all’11 novembre 1982 il Crocifisso di Cimabue (fig. 5), gravemente danneggiato dall’alluvione del 1966 e appena finito di restaurare. L’impatto dell’opera sull’artista è enorme. Ne legge attentamente il catalogo e ne studia il restauro. Tuttavia, come scrive nel 1990 Jean-Pierre Criqui, «le opere di Barry X Ball non presentano nessun carattere arcaico. Ciò non è dovuto solo al loro aspetto aniconico, al fatto che conservino soltanto gli elementi non figurativi dei pannelli del Trecento. Il modo in cui contraddicono con insistenza una visione solo frontale (resa però molto seducente dall’effetto riflettente del metallo prezioso) mi sembra l’indizio più convincente del loro radicarsi in una linea di pensiero formale di cui i maggiori rappresentanti sono pittori quali Mondrian e Ryman».

Nel 1984 Ball fa il suo primo viaggio in Europa: va in Germania ad incontrare gli artisti legati al gruppo dei pittori di monocromi, a Parigi, Gand, Colmar, Firenze e Siena, dove può finalmente vedere dal vero il gotico toscano, le architetture, le sculture e le pale degli artisti che aveva studiato sui libri e nei musei americani. Da allora i suoi viaggi in Italia sono sempre più frequenti e si concentrano sulla Toscana e su Roma, finché dal 2003 incomincia a recarsi anche a Venezia e a Milano.
La sua riflessione si fa più complessa e si focalizza su diversi temi, quali il rapporto tra l’opera e il muro retrostante, la sua collocazione nello spazio, ma anche la drammatica vicenda e la nostra percezione dei polittici smembrati e in parte dispersi, di cui ogni ricostruzione rimane sempre ipotetica.
La serie Twelve Identical Units del 1987-88 evoca la sequenza di dodici tavole a fondo oro con apostoli di un polittico smembrato ed è la prima opera che si libra nello spazio vuoto di una storia a noi sconosciuta, sospesa a fili tesi tra pavimento e soffitto. Questo tipo di presentazione allude anche alla interpretazione del Cristo crocifisso come Uomo/Dio che si colloca tra il cielo e la terra con la sua morte redentrice. Ejaculate n. del 1989 è un riferimento diretto al citato testo di Steinberg pubblicato su «October»; in essa la fertilità divina rinvia a quella dell’uomo che genera altri esseri umani e dell’artista che crea. Diptych del 1987-91, come Action Painting e The Art of Dying del 1990-91 indagano diverse relazioni di due opere tra loro, nello spazio e con la luce.
Dal 1982 Ball produce personalmente per i suoi lavori degli astucci, costruiti con grande cura, che egli considera concettualmente parte dell’opera stessa in quanto “opera mobile” (fig. 6). Infatti l’idea di “opera mobile” (già presente ad esempio nei dittici consolari in avorio del IV secolo e poi, dal XIII secolo, nei polittici di piccole dimensioni di uso devozionale privato, raffiguranti spesso imago pietatis) si è trasformata nel mondo contemporaneo in una pratica senza precedenti, per cui dipinti e sculture viaggiano continuamente da un capo all’altro del globo – da una mostra all’altra, da una fiera d’arte all’altra, da un collezionista all’altro. Queste casse finiscono dunque per accompagnare sempre l’oggetto artistico, si possono esporre insieme al lavoro che sono destinate a trasportare e si arricchiscono fino a contenere tutto quello che può occorrere per appendere l’oggetto al muro, dai diversi tipi di tasselli ai guanti, a dettagliate istruzioni scritte, agli strumenti utili alla sua manutenzione. Tutti questi elementi sono considerati come facenti parte di un unico insieme. Da semplici casse si trasformano in reliquiari o in ostensori dell’opera d’arte che le ingloba.
La nuova serie che Ball realizza tra il 1990 e il 1993, intitolata significativamente The Not Painting Collection, costituisce un salto nella produzione dell’artista verso una maggiore complessità sia concettuale che materiale: la realizzazione di questi lavori presuppone una indagine specifica sulla ricerca dei materiali, inusuali in ambito artistico, su speciali attrezzature per la loro lavorazione e disegni da ingegnere. Da questo momento le opere di Barry X Ball saranno necessariamente sempre progettate a computer.
Il complesso insieme di materiali degli altorilievi di The Not Painting Collection (Corian prodotto dalla DuPont, vetro, oro, diversi tipi di pigmenti) si riferisce ai principali componenti che costituiscono un quadro: la teca in vetro posta in alto è il legante solidificato che fissa il colore (in genere olio o acrilico) pur lasciandolo vedere; il pigmento in essa contenuto sotto forma di polvere è il colore al suo stato puro; la struttura in Corian è il supporto del colore stesso e del suo legante; il gesto del pittore che crea il dipinto è fissato negli strati ricchi di sgocciolature (drippings) della formella inferiore in oro o argento. Ball scompone dunque il dipinto nelle diverse parti che lo costituiscono, ricomponendolo poi in modo così diverso da non poter più essere definito “un dipinto”.
I riferimenti storico-artistici di questa serie sono pure molteplici e ispirati soprattutto al gotico toscano: l’alternanza di fasce bianche e nere delle chiese, le colonnine tortili delle edicole (in Tableau Vivant, 1992-93), le formelle quadrate collocate spesso ai lati dei portali, la diffusa devozione alla Vergine e la parola scritta (in The Birth of the Virgin, 1990-91), l’uso di metalli preziosi. La forma complessiva del bassorilievo è quella di una croce capovolta: un’allusione alla croce di Pietro, primo papa cattolico, e un dubbio sulla salvezza proveniente da una realtà puramente umana. L’artista scrive in una dichiarazione su questa serie di opere: «Tutti i lavori che ho realizzato dall’inizio degli anni Ottanta fino a The Not Painting Collection presentavano almeno un pannello dorato […] Volevo creare una fontana “maschile” capovolta e solidificata, realizzata artificialmente, proveniente da/riflettente il pube, che “zampillava” in un sincero omaggio al recipiente “femminile” posto sopra di essa, all’altezza del cuore».
Incomincia a farsi strada in queste opere, oltre alla ricchezza decorativa del gotico, un interesse per le forme barocche che caratterizzano la Roma papale. Un primo esempio di piccole dimensioni è Signature Work del 1994, in cui la purezza minimalista dei primi pannelli a fondo oro è abbandonata in favore di una maggiore tridimensionalità e di un senso di horror vacui.
Il passo successivo è A Profusion of Loss del 1993-95, primo lavoro di grandi dimensioni, che “si appropria” di una celebre opera andata perduta, La battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio a Firenze, di cui oggi conosciamo la parte centrale grazie a un disegno di Rubens conservato al Louvre e realizzato da un cartone o da una copia dell’originale. Da qui il titolo di Ball, che enfatizza il concetto di perdita del capolavoro. In questo caso l’artista crea una installazione di cinquantacinque elementi che evocano il movimento delle undici figure di Rubens e che fluttuano sospesi davanti al muro. Ciascuno di essi è costituito da una cornice vittoriana in argento che contiene delle strisce bianche e nere in Corian, riferimento all’uso del “rigatino” da parte dei restauratori del tempo per integrare le parti mancanti di un dipinto. Esse conferiscono un forte e studiato dinamismo all’intera composizione. Ball scrive di quest’opera parole che si possono anche riferire in generale ai Masterpieces: «Ho usato La battaglia di Anghiari come punto di partenza, non come un modello da seguire. La trasformazione tridimensionale di una celebre battaglia a cavallo è ben lontana da ogni forma di mimesi… Crocifissioni sanguinose e ben dipinte, martirii, scene di tortura e battaglie sono presenti in tutta la storia dell’arte. La fusione di bellezza e violenza è molto seducente. Con questo lavoro io stesso mi sono lasciato sedurre. Isolando e rendendo astratti alcuni elementi che ho scelto nell’opera di Leonardo/Rubens ho trasformato una stupenda composizione perfettamente equilibrata dell’Alto Rinascimento in quello che appare volutamente come un “pezzo sparpagliato”».
Dopo questo lavoro l’artista si inoltra decisamente sulla via della tridimensionalità, libera da qualsiasi rapporto con il muro e destinata a misurarsi con lo spazio circostante. Tra il 1995 e il 1997 realizza una serie di opere in Corian bianco e nero che si presentano come oggetti sospesi nel vuoto per mezzo di cavi in tensione e in cui si fondono scultura, pittura e architettura. Se i fili sono linee nello spazio che ricordano l’arte di Fred Sandback, il peso del marmo sintetico è negato dall’aspetto fluttuante, aereo ed enigmatico delle forme. Queste B/W Sculptures sembrano audaci edifici contemporanei e giocano con aspetti matematici della prospettiva, ma traggono origine anch’esse dai monumenti gotici toscani (fig. 1) e potrebbero essere incluse a pieno titolo nella categoria dei Masterpieces.
Dopo un’opera sperimentale del 1997-98, un autoritratto con cui Ball vuole provare a utilizzare il Corian per creare forme curve e complesse come quelle del volto umano, l’artista prende improvvisamente una direzione apparentemente del tutto diversa dal suo percorso precedente: realizza delle sculture figurative in marmo. Perché?
L’uso del materiale sintetico presenta degli aspetti che Ball vive come limiti alla sua creatività, quale il numero ridotto di colori disponibili e l’omogeneità della texture.
Inoltre per creare il suo autoritratto egli sperimenta per la prima volta le nuove tecnologie, allora ancora ad uno stadio poco più che embrionale, grazie alle quali intravede inedite, entusiasmanti possibilità. L’autoritratto era iniziato con la scansione della sua testa ad opera di una macchina digitale 3D, in uno studio per effetti speciali per riprese cinematografiche, trasformata poi da un robot CNC in un prototipo tridimensionale. Subito dopo aver realizzato questa scultura Barry entra in contatto con lo Stone Division del Johnson Atelier, a Mercerville, nel New Jersey, dove le prime macchine CNC sono in grado di sgrezzare la pietra.
Decide così di utilizzare le nuove tecnologie nel ritratto di una delle persone che gli sono più care perché collezionista di circa il cinquanta per cento della sua prima produzione, Giuseppe Panza di Biumo. Il ritratto, realizzato tra il 1998 e il 2001, è in assoluto la prima opera in marmo a essere prodotta con i nuovi strumenti tecnologici – oggi ampiamente diffusi nell’ambito della produzione scultorea. Il processo fu complesso e richiese diverse fasi progressive: il calco del capo del collezionista; la realizzazione della testa “in positivo” in resina; la scansione 3D della testa così ottenuta; l’elaborazione a computer dell’immagine virtuale in 3D, in modo da introdurre le modifiche volute dall’artista e la scelta della dimensione della scultura finale; il trasferimento dell’immagine virtuale al robot a controllo numerico che la sgrezza nel marmo; infine la (lunghissima) finitura a mano per la definizione dei dettagli e di tutte le parti, come i sottosquadra, che il robot non è in grado di lavorare (fig. 7). Bisogna notare che i lavori realizzati con i robot presentano una superficie incisa da piccole linee in rilievo, che costituiscono il segno lasciato dall’utensile diamantato usato dalla macchina per scalfire il marmo. Fin dalla sua prima scultura Ball sceglie di lasciare talvolta visibili queste linee, studiatamente rivolte in varie direzioni (anche se poi spesso modificate o rese più regolari manualmente), come segno del processo creativo stesso. Gli strumenti per l’ultima, lunghissima operazione artigianale di finitura sono anch’essi molto spesso creati o adattati dall’artista, che li “prende a prestito” da diversi ambiti, quali la chirurgia, l’odontoiatria o la meccanica di precisione.

Il ritratto di Giuseppe Panza non costituisce solo il frutto di una rivoluzione tecnica, che trasforma radicalmente la pratica millenaria della scultura in marmo e in pietra. Esso vuole misurarsi anche dal punto di vista stilistico e concettuale con la tradizione non meno antica del ritratto con questi materiali. La somiglianza con il soggetto è impressionante perché ripropone i dettagli del viso derivati dal calco. L’uso di ricordare i defunti mediante la loro maschera mortuaria è molto antica e Barry fu impressionato, a questo proposito, da quella di Filippo Brunelleschi conservata a Firenze presso il Museo dell’Opera del Duomo. Tuttavia il ritratto rappresenta Panza come se fosse completamente calvo, elemento non corrispondente alla realtà, e senza alcun riferimento all’abbigliamento. La testa priva di capelli e l’assenza di qualsiasi drappeggio è una caratteristica presente in tutti i ritratti di Ball eseguiti fino ad oggi. La spiegazione di questa scelta, assai radicale, specie per le figure femminili, è legata alla volontà dell’artista di cancellare un elemento stilistico preciso che lega l’opera al suo tempo per conferirle un carattere universale e oggettivo, al di là anche di ogni connotato di genere o di status sociale. Il ritratto di Panza vuole anche interpretare il personaggio in senso psicologico e storico, secondo una tradizione plurisecolare: il suo carattere sobrio e il suo amore per la bellezza sono resi con la purezza del marmo bianco macedone, tipico della più aulica tradizione classica e privo di imperfezioni; il suo atteggiamento riflessivo dall’espressione concentrata e dagli occhi talvolta chiusi, “che guardano dentro di sé”. L’opera è intitolata Pseudogroup of Giuseppe Panza e composta da nove teste in tre diverse dimensioni, che possono essere variamente disposte nello spazio, con una libertà che contraddice le regole della prospettiva accademica. La composizione nel suo insieme vuole evocare la sala di un museo di antichità – per la precisione una sala di ritratti di età romana del periodo repubblicano e del primo periodo imperiale – per il carattere realistico delle sculture di quell’epoca, che abolirono trasformazioni di tipo idealistico nella resa dei soggetti in favore di un maggior realismo. Giuseppe Panza, che, con la sua opera di illuminato collezionista di arte contemporanea americana, incrementò in modo significativo le raccolte di importanti musei, è dunque rappresentato come un mecenate dell’antichità, uno degli uomini che fondarono la civiltà e l’arte in cui ancora oggi – dopo duemila anni – il mondo occidentale si riconosce. Il ritratto del collezionista è creato in modo da cancellare “lo stile” dell’opera per porla là dove la storia dell’arte finisce: passato e presente si fondono in una nuova realtà, che passa anche attraverso la tecnologia.
Dal 2000 al 2007 Barry X Ball produce una serie di ritratti di persone appartenenti al mondo dell’arte e al suo entourage, cioè di artisti, collezionisti e mercanti. A Villa Panza ne sono esposti alcuni che mostrano le diverse direzioni in cui si sviluppa la sua ricerca.
Egli usa marmi fortemente caratterizzati dal colore (come l’onice pachistano), o da “imperfezioni della superficie” (come l’onice messicano che presenta cavità contorte), da venature interne (come la calcite dorata), traslucidi (come l’onice bianco iraniano) o semipreziosi (come il lapislazzuli). Molti di questi marmi non furono usati in passato in scultura perché sarebbero andati in frantumi sotto i colpi dello scalpello. È possibile tagliarli solo con gli strumenti diamantati oggi in uso, spesso con tempi di lavorazione molto lunghi.

Ball elabora forme nuove grazie alla progettazione a computer in 3D, che sostituisce completamente lo schizzo preparatorio a mano. La testa viene allungata, trasformata in due teste unite insieme, complicata dal sovrapporsi di diverse texture quali disegni a rilievo sopra le linee lasciate dai robot. L’artista studia anche attentamente come la scultura si possa rapportare allo spazio circostante, proponendo di volta in volta soluzioni diverse: la colloca su un semplice palo in acciaio o su un basamento bianco candido, che dichiara nella forma minimale e nel colore la propria appartenenza al XXI secolo, o addirittura la sospende al soffitto per mezzo di un complesso sistema di cavi, in cui emerge anche un’allusione alla macabra tradizione di mostrare la testa mozzata dei nemici infilzata su un palo. La serie di opere fotografiche realizzate in seguito alla mostra personale dell’artista a Ca’ Rezzonico a Venezia8 dimostra come egli concepisca e proponga le proprie sculture non come singoli oggetti ma come vere e proprie installazioni, non rigidamente prestabilite ma che possono variare nello spazio con cui si relazionano. Le rielaborazioni dei soggetti ritratti sono tali da poter far pensare che essi costituiscano soltanto un pretesto per la fantasia dello scultore. Tuttavia, oltre alla somiglianza fisionomica legata alla oggettività del calco con cui inizia tutto il processo creativo, la complessità dell’elaborazione finale è sempre connessa ad una profonda lettura psicologica del personaggio, alla sua storia e alla sua relazione con l’artista. Due soli esempi: il ritratto di Matthew Barney – spesso visto da Barry X Ball come alter ego artistico – lo presenta come un uomo in cui si concentra l’energia proveniente dall’alto come attraverso un imbuto, avvolto nella sua pelle senza corpo come in un mantello, trafitto da un giavellotto dorato e appuntito, sospeso in una condizione ambigua tra la vita e la morte, come il Crocifisso tra il Paradiso e l’Inferno.
La serie di ritratti di Jeanne Greenberg Rohatyn, sua gallerista in quegli anni, è realizzata con superfici complesse e marmi translucidi in modo da ottenere effetti di sfumato che annullano la percezione di un materiale di per sé duro e pesante. In questo caso Ball vuole confrontarsi con la tradizione ottocentesca del ritratto romantico, cogliendo la donna in un momento di tenera commozione e di melanconia, immersa in un sogno ad occhi aperti, lontano dal suo abituale aspetto di gallerista di successo. L’artista sceglie per le opere di questo periodo titoli che sono particolarmente lunghi, elaborati e poetici. Essi descrivono dettagliatamente il personaggio, l’intenzione dell’artista e le caratteristiche dei materiali impiegati, scimmiottando talvolta le espressioni usate dalle case d’asta e contrapponendosi esplicitamente all’enigmatico e sintetico Untitled, usato da molti artisti negli ultimi decenni per le loro opere.

In questi primi anni del XXI secolo Ball deve affrontare continue difficoltà per far accettare le sue opere, formalmente così diverse da quelle della sua prima produzione, e si sente particolarmente solo nella sue scelte radicali, misconosciuto dai suoi primi collezionisti, isolato nel contesto artistico newyorkese e lontano dal gusto allora predominante. I suoi ritratti esprimono spesso non solo il carattere dei personaggi raffigurati e la loro relazione con l’artista, ma anche sentimenti di angoscia, mitigati solo dalla ferma volontà di portare avanti una ricerca totalmente libera dai condizionamenti del sistema e del mercato.
La nuova serie dei Masterpieces intrapresa nel 2008 mostra una nuova sensualità, capace di esprimersi sia in forme più esplicitamente erotiche che in una spiritualità carica di poesia.

Riferimenti ad opere antiche erano emersi già nelle prime opere e poi nei ritratti, ma in forma mediata – come la ritrattistica romana nel Panza Pseudogroup o il Busto di Nefertiti del Neues Museum a Berlino in Hard Dark Soft Light, del 2000-02. Dal 2008 l’artista decide di eliminare questo tipo di mediazione e di lavorare, tramite la scansione 3D dell’opera, direttamente sulla fonte classica. Realizza così la serie dei Masterpieces con le varie versioni di Purity e di Envy, ispirate rispettivamente a La dama velata (la Purità) (1720-25) di Antonio Corradini (fig. 9) e a L’Invidia (1670 ca.) di Giusto Le Court (fig. 10), Sleeping Hermaphrodite dall’Ermafrodito dormiente in marmo di epoca ellenistica su letto di Gian Lorenzo Bernini (1620) ora al Louvre (fig. 11), Perfect Forms da Forme uniche nella continuità dello spazio (1913) di Umberto Boccioni (fig. 12), uno dei capolavori dell’avanguardia che segna l’inizio della scultura moderna. La ricerca di Ball prosegue nella direzione indicata dai ritratti, con l’uso di marmi dalle caratteristiche molto particolari o di altri materiali, sempre comunque diversi da quelli della fonte di ispirazione, e con modifiche di parti del modello in modo da trasformarne il significato.

Envy e Purity, pur essendo derivate da opere di scultori diversi che operarono a circa cinquant’anni di distanza, diventano una coppia in cui le forme sono speculari, le basi e il retro corrispondenti, i marmi si contrappongono e la sensualità composta e serena della prima fa da contraltare alla vecchiaia aggressiva e angosciante della seconda.
Sleeping Hermaphrodite (fig. 13) fonde in un solo blocco di marmo le diverse parti dell’opera al Louvre – realizzate a distanza di secoli, in luoghi diversi e in materiali diversi –, quali la statua di epoca romana derivata da un modello greco probabilmente in bronzo e il materasso di Bernini che le aveva conferito un carattere erotico più esplicito e trasgressivo. Le differenze nella lavorazione delle superfici – lucidate, opache, smerigliate, rigate –, tipiche di tutto il lavoro in marmo di Ball, accentuano la differenza dei diversi materiali rappresentati e ne accrescono la sensualità. Il marmo nero del Belgio (di dimensioni eccezionali per questo tipo di materiale) utilizzato da Ball non crea solo una nuova unità estranea al modello, ma ne rende evidenti anche le incongruenze, presenti nell’anatomia del collo, della schiena, e nelle proporzioni della gambe e nel letto, che rimane rigido come un vassoio invece di piegarsi sotto il peso della figura. Un’immagine tradizionalmente percepita come realistica rivela così deformazioni che appaiono moderniste.

Il lavoro sulla scultura di Boccioni consiste ancora in un cambio significativo di materiale: il marmo e l’oro non furono mai usati dall’artista italiano, che non aveva la possibilità di avvalersene per motivi economici e che li giudicava legati ad una concezione artistica “passatista”. L’uso del marmo, inoltre, sostituisce alla tecnica “per porre” del gesso (utilizzata perlopiù dai pittori che fanno scultura) la tecnica “per levare” (propria degli scultori come Michelangelo). Boccioni aveva lavorato la sua opera in fretta, in creta. Essa era stata poi formata in gesso da un professionista che dovette offrire la sua assistenza anche per la parte statica, di cui il pittore non aveva esperienza. Il risultato finale, straordinario per la novità e l’audacia dell’invenzione formale e la resa dinamica, fu però piuttosto grossolano nella definizione delle superfici e dei dettagli, come è possibile osservare anche nelle versioni in bronzo. Ball rettifica ogni superficie ed ogni linea, accentuando la forma aerodinamica della scultura, che ama paragonare alla carrozzeria di un’auto da corsa Ferrari. Con questo lavoro egli esaspera l’idea di Boccioni che l’aria e la luce si fondano con il corpo in movimento e trasforma la scultura in una forma “liquida”. Essa infatti si dissolve negli effetti riflettenti della versione in oro e diventa una presenza inquietante ed indefinibile per la leggerezza delle sue forme lucidate in quella in marmo nero del Belgio. Perfect Forms di Ball è una versione a specchio di Forme uniche di Boccioni. La tecnica della scansione 3D e delle successive elaborazioni a computer attraverso cui Ball realizza le sue sculture non è mai esibita esplicitamente nel suo lavoro, salvo che nel ribaltamento destra-sinistra, possibile in modo perfetto soltanto attraverso lo strumento digitale.
Fanno parte di queste serie di Masterpieces anche Pietà in onice bianco, ispirata alla Pietà Rondanini di Michelangelo ed esposta ora nella Sala degli Scarlioni al Castello Sforzesco di Milano – per la quale si rimanda al testo di Sergio Risaliti in questo catalogo – e alcune opere in corso di realizzazione: San Bartolomeo ispirato all’omonima statua di Marco d’Agrate nel Duomo di Milano; Ilaria del Carretto dal monumento funebre di Jacopo della Quercia nel Duomo di Lucca; Le Marie e Maddalena, dal gruppo del Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca in Santa Maria della Vita a Bologna; il Ritratto di Michelangelo Buonarroti da quello in bronzo di Daniele da Volterra delle Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco di Milano.
La più recente opera di Ball, presentata per la prima volta in occasione di questa mostra, è Pope Saint John Paul II, ritratto del santo realizzato in argento, palladio, rodio e oro.
Non si tratta dunque di una scultura in marmo ma di un oggetto in metallo prezioso fuso da orefici di grande esperienza e capacità tecnica quali Damiani, ancora una volta secondo una tradizione che risale al gotico toscano: Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti, infatti, facevano parte dell’“Arte degli Orefici” di Firenze.

Il cambio di materiale maturò di fatto da una necessità pratica: nel 2012 Ball lasciò il Digital Stone Project (la nuova fondazione in cui si era trasformato lo Stone Division del Johnson Atelier) per costruire nel giro di qualche anno un nuovo studio, ampio e perfettamente attrezzato, dove poter creare opere di grandi dimensioni. Nello stesso momento ricevette una commissione prestigiosa: il ritratto ufficiale di S.A. Reale il Principe Alberto II di Monaco. Inventò dunque una nuova tecnologia, sempre basata sull’uso del 3D e, soprattutto, un nuovo tipo di ritratto. L’effigie del principe Grimaldi (2012-15, fig. 14) fu realizzata a dimensione naturale in oro massiccio 18 kt ed è ora esposta in una teca nella Galleria degli Specchi del Palazzo dei Principi di Monaco. La particolarità dell’opera consiste nel fatto che essa è costituita come una sorta di sfera armillare in cui diverse forme, riferite all’identità del sovrano, sono contenute le une dentro le altre. Mentre nelle opere in marmo Ball aveva lavorato sulle superfici, sovrapponendo diverse texture quali le venature del marmo, le righe conseguenti alla lavorazione del robot e degli arabeschi floreali di origine vittoriana, qui l’opera è costruita partendo dall’interno e si espande fino a creare la forma esterna finale, che risulta dall’effetto combinato di forze centrifughe e centripete. Le superfici corrispondenti ai diversi pattern lasciano intravedere le forme poste all’interno. Il ritratto riproduce con fedeltà la fisionomia del personaggio, ma è costituito da alghe – che alludono alle ricerche oceanografiche e all’impegno in favore della tutela dei mari da parte del sovrano – e dagli emblemi araldici del Principato.
La stessa idea viene sviluppata nel ritratto del Papa, elaborato e realizzato in un arco di tempo particolarmente lungo: dal 2012 al 2018. In questo caso il ritratto nasce dall’interesse dello scultore per la figura del Pontefice, che aveva visto stando tra la folla in occasione della sua visita a New York nell’ottobre del 1979, e dal desiderio di misurarsi con un’importante tradizione che conta tra i suoi rappresentanti Gian Lorenzo Bernini. L’immagine complessiva (la testa con la mitra sul capo) e il materiale utilizzato (l’argento coperto di palladio e rodio) ci riportano alla iconografia dei santi vescovi a mezzo busto in argento, che costituiscono una delle tipologie di reliquiario più diffuse. Ma Pope Saint John Paul II di Barry X Ball è costruito come il ritratto di S.A. il Principe Reale Alberto II di Monaco, cioè come una successione tridimensionale di elementi figurativi, che vanno dai dettagli delle decorazioni barocche tratti dalla basilica di San Pietro a Roma allo stemma del pontificato, dai riferimenti a episodi significativi della vita del santo ai suoi interessi personali, fino alla sua devozione alla Vergine Maria. La mitra del Pontefice è trasformata così in una summa visiva di tutta la sua vita, dalla Seconda guerra mondiale al periodo trascorso sotto il governo comunista, dalla passione per lo sci all’attentato in piazza San Pietro, dall’elezione al papato agli anni della malattia. Questo accumulo di dettagli, facilmente identificabili per il loro realismo, va consapevolmente incontro a una devozione popolare che ha bisogno di forme e di racconti riconoscibili, nel solco di un’antica tradizione di arte narrativa opposta ai linguaggi enigmatici contemporanei o a banali stilizzazioni delle forme.
La sfida che Ball accetta con quest’opera è un vero azzardo: coniugare l’eccellenza della tradizione rinascimentale e barocca dei ritratti di papi ed alti prelati con le esigenze della religiosità popolare di oggi per creare, grazie alle tecniche più avanzate, un’opera d’arte contemporanea degna di questo nome e all’altezza di questo passato. Pope Saint John Paul II non è solo un tour de force tecnico, ma anche una sfida ai canoni e ai dogmi dell’arte contemporanea più accreditata, che vengono messi in discussione dalle fondamenta. Non l’abbinamento usuale – direi consumistico e ormai consumato – di antico e moderno, ma un vero capovolgimento come quello destra/sinistra che solo lo strumento digitale è capace di fare.
L’idea che caratterizzava i primi pannelli con la foglia d’oro di Ball è ancora viva e riconoscibile qui: la realtà materiale dell’oggetto è ancora fondamentale, tanto che sul volto del Pontefice sono presenti dei piccoli segni che mostrano come la lamina di metallo prezioso lavorata a sbalzo venisse anticamente fissata alla struttura in legno dei manufatti. Infatti tutte queste opere sono originate da uno stesso procedimento di analisi che scompone e ricompone l’oggetto nelle sue parti. La forma finale generata da questo approccio, sostanzialmente concettuale, può variare liberamente.
Questa è la sintetica storia dei primi trentasei anni di lavoro di Barry X Ball, artista nato in California che lavora a cavallo tra XX e XXI secolo. Il suo apprezzamento per Duchamp non è mutato anche se i suoi riferimenti sono stati molteplici attraverso i secoli, fino ad arrivare ad un tête-à-tête con il Bernini della Roma papale e con l’ultima Pietà di Michelangelo.
L’opera d’arte è una realtà materiale, creata dall’uomo secondo gli strumenti della tecnica di cui dispone in un dato momento storico. Essa “è quello che è”, secondo la definizione che ne diede il Minimalismo americano, ma esprime anche la cultura di chi la realizza. Di questa cultura fanno parte – oggi – le opere di ogni tempo e di ogni luogo, conservate nei musei o nei siti storici ormai sempre più facilmente accessibili a un numero crescente di persone. Si è creato così nella nostra “civiltà globalizzata” un sincretismo di modelli estetici sostanzialmente equivalenti ed intercambiabili che ha cancellato quella “Storia dell’arte” come sviluppo di tipologie e di forme che era stata canonizzata nel XIX secolo e da cui i maggiori e più antichi musei hanno tratto origine e ragion d’essere. Ispirarsi a Giotto o a Boccioni non è più, per l’arte contemporanea, un salto tra modelli stilisticamente o storicamente opposti. Per gli artisti contemporanei la “Storia dell’arte” è finita.
Notes:
1. Edito da Gebr. Mann, Berlino; edizione inglese: Hans Belting, The Image and Its Public in the Middle Ages: Form and Function of Early Paintings of the Passion, A.D. Caratzas, New Rochelle 1990.
2. Comunicazione orale.
3. Jean-Pierre Criqui, Barry X Ball, catalogo della mostra (Centre d’art contemporain du domaine de Kerguéhennec, 30 giugno – 26 agosto 1990), pp. s.n. (11-12).
4. Cfr. Hans Belting, Op. cit. 5. Barry X Ball, Statement for The Not Painting Collection, 1993.
5. Barry X Ball, Statement for The Not Painting Collection, 1993.
6. Barry X Ball, Statement for A Profusion of Loss, 1995.
7. Barry X Ball, Statement for Panza Pseudogroup, 2003: «Si realizza un calco della testa e del collo del soggetto usando alginato e gesso. Contemporaneamente scatto una serie di foto (sia della testa intera che di dettagli del cranio e del viso) che serviranno da riferimento nelle successive fasi di rifinitura. In tutto, fra calco e fotografie, ci vogliono circa quattro ore. Subito dopo aver fatto il calco dal vivo, sulla base dello stampo di testa e collo, si fa un positivo in gesso e polimeri. Il positivo in genere è molto grezzo quando esce dallo stampo e bisogna rifinirlo manualmente per trasformarlo in un facsimile accurato del soggetto. A volte gli occhi vengono scolpiti come se fossero aperti, perché i soggetti devono tenerli chiusi durante la posa del calco. Poi si crea una forma con cui terminare il collo e la si attacca alla testa. Per realizzare la scultura in pietra partendo da quella in gesso, per prima cosa la si trasforma in immagine digitale per mezzo di uno scanner laser tridimensionale. L’intera scansione viene poi dimensionata (50%, 75%, 100%, ecc.) prima di essere convertita nei comandi per la macchina. La pietra viene sgrezzata con macchine fresatrici computerizzate (MCN). I blocchi di pietra (marmo bianco della Macedonia per il Panza Pseudogroup) vengono tagliati con una sega a nastro diamantata e una sega a ponte, dopodiché, con una punta diamantata, vi si pratica il foro che costituirà l’asse della scultura (che corrisponde a quello del modello). Seguono giorni e giorni di minuziosa e lentissima sgrezzatura per mezzo di un robot guidato da un computer, con passaggi multipli eseguiti con strumentazioni sempre più raffinate, su un tornio MNC triassiale. Con i passaggi finali di fresatura, sull’intera superficie di ogni testa vengono incisi solchi di varia misura e orientamento (verticale, orizzontale, diagonale). Dopo la fresatura MNC ci vogliono mesi di scultura e lucidatura a mano. Infine le aree già lucidate (rientranze degli occhi e del collo) vengono protette e si procede alla sabbiatura delle parti rimaste opache».
8. Barry X Ball, Portraits and Masterpieces, Venezia, Ca’ Rezzonico, 4 giugno – 31 ottobre 2011.
9. Le difficoltà tecniche della realizzazione hanno comportato un ritardo nell’esecuzione di quest’opera da parte di Damiani. Perciò la scultura verrà presentata nel corso della mostra, all’inizio dell’estate, invece che per l’inaugurazione. In occasione dell’opening sarà esposto un lavoro di più piccole dimensioni (Matthew Barney – BXB Dual Portrait), in argento dorato e smalto nero, raffigurante lo stesso soggetto, cfr. pp. 94-95.